Lingua cultura e società a Forlì nel secondo novecento
Elide Casali
L’intervento, che rientra in una
prospettiva di storia della cultura, è impostato sul rapporto tra lingua e
dialetto a Forlì nel secondo Dopoguerra
A.
Il contesto sociale
e culturale, geografico ed economico
FORLÌ: il Forlivese e la Romagna
Se si vuole affrontare il tema del
rapporto tra lingua e dialetto a Forlì è necessario considerarlo in prospettiva
diacronica e in relazione al territorio dell’intera provincia e della Romagna.
Una provincia che si estende «Dagli Appennini alle onde», dalla Romagna Toscana
alla Riviera, a Rimini (fino a pochi anni fa inserita nella provincia di Forlì,
ora provincia a se stante), e che significa una tradizione culturale
multiforme: cittadina, rurale e montanara, ciascuna delle quali presenta
necessariamente linguaggi tecnici diversi in dialetti diversi oltre che
diversificate parlate dell’italiano regionale. Gli abitanti della Romagna
toscana, per esempio, presentano una lingua dialettale romagnola mista ad un
toscano più elegante e forbito rispetto al romagnolo di pianura e della bassa
Non esiste, sostiene Giuseppe
Bellosi, un dialetto romagnolo né come lingua, né come Koiné letteraria. Per
farsi intendere da un paese all’altro i romagnoli parlano una koiné romagnola
che non esiste, un romagnolo medio che è però comprensibile.
La lingua del Forlivese è il
risultato di esperienze culturali legate anche alla posizione geografica della
città degli Ordelaffi che, a seconda dei momenti storici, è stata attirata
nell’orbita di grandi centri politici culturali e tipografici (Firenze,
Bologna, Venezia) mentre, a partire dal secondo dopoguerra con l’esplosione
dell’industria turistica della riviera, conosce una significativa proiezione
verso i centri di mare (Rimini, Cesenatico).
L’industria turistica assorbe
lavoratori dall’entroterra, dalle zone di pianura, pedemontane e montane: è da
un lato il parziale abbandono e la defolclorizzazione del dialetto e,
dall’altro lato, l’incontro della lingua italiana con la lingua straniera dei
turisti. Non significa scomparsa totale del dialetto, ma sicuramente un suo
progressivo impoverimento quando viene a trovarsi disancorato dalla cultura
materiale e agricola sulla quale si era modellato per secoli.
B. dal dialetto
all’italiano a partire dal II dopoguerra
Il processo che porta ad abbandonare
il dialetto verso una lingua italiana regionale e letteraria conosce alcune
tappe importanti, individuate nei seguenti fenomeni: la scolarizzazione
unitamente alla «probizione» ai bambini nelle famiglie della piccola e media
borghesia (oltre che all’interno di famiglie di bassa estrazione sociale, per
le quali l’italiano diventa strumento di emancipazione culturale e sociale) di
parlare il dialetto già a partire dai primi anni del secondo Dopoguerra
nell’Italia della ricostruzione (in Romagna e a Forlì, avviene, come in altre
realtà dialettali, quello che racconta Diego Marani nel suo libro Come ho
imparato le lingue, Milano, Bompiani, 2005 a proposito della probizione in
famiglia e a scuola di parlare il dialetto che Marani apprende segretamente dai
nonni e dai compagni di gioco). Si giunge così ad una parlata italiana locale
con l’ìtalianizzazione del dialetto che va sempre più speditamente verso
l’italiano appreso anche attraverso i mass media, con una virata artistica e
«turistica», negli anni Settanta, verso il dialetto simbolicamente
rappresentato dall’Amarcord di Federico Fellini e dalla Romagna
dell’«ombrellone e della piadina» (Balzani). Infine alle soglie del terzo
Millennio si assiste alla sublimazione del dialetto romagnolo a lingua della
poesia che va oltre i confini regionali e che irrompe prepotente in campo
nazionale dove per tradizione i dialetti universalmente accolti in ambito
culturale e letterario sono stati il napoletano e il veneziano.
B.1. Verso
l’italiano.
Scolarizzazione e invito alla lettura: il ruolo della Biblioteca popolare
La cultura della lettura a Forlì è legata, nel secondo Dopoguerra,
all’apertura della Biblioteca popolare fondata da Alessandro Schiavi che
favorisce la diffusione e il radicamento dell’italiano letterario. Si tratta
del primo nucleo di quella che poi è divenuta un fondo di narrativa tra più i
ricchi d’Italia, e per mezzo della quale il prendere libri a prestito diviene
uno stile di vita caro a molti forlivesi.
Alessandro Schiavi ne dà
conto nella «Relazione di Alessandro Schiavi alla Sezione socialista di
Forlì», relativa all’attività culturale, politica e amministrativa riguardante
il partito socialista svolta dal 20 dicembre 1944 al 28 agosto 1945, al punto
4: «Biblioteca e Pinacoteca Municipali», dove informava:
«Come presidente della commissione di
vigilanza, in rappresentanza del Sindaco, rifatto il regolamento organico,
improntandolo ai moderni criteri della tecnica delle biblioteche, e creata la
sezione Biblioteca popolare con proprio regolamento, locale bilancio»
(SCHIAVI, Diari, p. 305).
Studiata nell’ambito del rinnovamento
politico dopo la caduta del regime, sostenuta dall’idea della «città-giardino»
(assorbita da Schiavi in Inghilterra, dove era sorta nel 1898 per merito di
Ebenez Howard)(Temeroli, p. 206) della «ricostruzione e ripresa della vita
cittadina dopo la paralisi e le distruzioni causate dalla guerra» (Temeroli, p.
200), essa fu creata col sostegno di «soci», dopo un appello alla
collaborazione volto alla cittadinanza, alle associazioni e agli enti pubblici
locali (Temeroli, p. 202) per creare il fondo iniziale e la sovvenzione
periodica. Si trattava, dunque, di una associazione, i cui «soci
ordinari erano gli utenti abbonati e soci perpetui», cioè tutti coloro che
avessero versato una volta la quota di mille lire. Dopo una modifica del
regolamento nel 1956, finalmente nel 1963 la Biblioteca Popolare fu assorbita
dalla Comunale, divenendone la sezione moderna.
Il senso della Biblioteca
popolare, che si
differenziava dalla «Saffi» (dedita alla conservazione e consultazione in sede
e frequentata da studenti e da studiosi), era quello dell’«educazione degli
strati sociali subalterni» e «delle masse lavoratrici» per quanti
avessero frequentato solo i primi anni di scolarizzazione come «integrazione e
continuazione dei corsi scolastici diurni e serali, tecnici e di avviamento»
(ibidem, p.212). Era quello di creare un «piacevole insegnante» che proponesse
accanto «ad opere di amena lettura o divulgative», opere politiche, sociali e
storiche (ibidem, p. 204). L’apertura al pubblico avvenne ai primi di luglio
del 1946. Nel 1951 da 700 volumi iniziali s’era passati a più di 4000, (opere
di cultura varia: storia, scienze, politica, narrativa, sia italiana che
straniera, e libri per ragazzi). Nei giorni di apertura, sabato e domenica,
affluivano una media di 80-90 persone con alcune centinaia di soci: operai,
artigiani, impiegati, studenti, ragazzi. Grandi assenti i contadini.
Dunque nel secondo dopoguerra, anche per l’attività della Biblioteca popolare,
il divario linguistico e culturale tra città e campagna aumenta. Le zone
rurali, soprattutto le più marginali, continuano a riconoscersi nella loro
cultura di tradizione orale e a parlare dialetto.
È solo con la scolarizzazione e
insieme l’industrializzazione, lo spopolamento delle campagne e delle zone
montane e pedemontane che il dialetto comincia ad incrinarsi, a piegarsi e a
convertirsi all’italiano.
B. 2.Il passaggio dalla campagna alla
città, dal mondo contadino al mondo operaio, segna il tramonto di tradizioni folcloriche e del
dialetto, e la diffusione di un parlare che va sempre più verso l’italiano,
in seguito a modificazioni del tessuto culturale, la perdita di costumanze
legate alla terra, all’agricoltura, ai mestieri scomparsi. Anche le
trasformazione del paesaggio cancellano definitivamente sedimentazioni
culturali e segni linguistici.La piantata, per esempio, introdotta nel
Cinquecento a caratterizzata da vidi maridedi all’oium, viti maritate
all’olmo, viti che si maritavano (s’intrecciavano, si legavano, quasi in
una esistenza simbiotica) ai gelsi, ora si configura con viti vedove dei loro
alberi-mariti, le quali si appoggiano tristemente a sterili e freddi grigi pali
di cemento. Quando vengono meno le tecniche tradizionali, si perdono le parole
della tecnica, s’eclissa l’dea stessa che la sottende. E mentre si abbandonano
le parole, si impoverisce l’immaginario collettivo tradizionale,
trasformandosi.
L’impoverimento della cultura
tradizionale trascina con sé la trasformazione delle relazioni sociali,
delleforme di vita e dei luoghi d’incontro: le veglie e i campi cedono
il primato alle piazze, alle biblioteche e alla scuola, a relazioni
interpersonali molto più anonime. Sono, ad esempio, scomparsi i soprannomi
che sapevano designare, per identificare i personaggi e per individuarli,
tratti fisici e morali ed economici o di ascendenza familiare.
Un episodio drammatico – ma
eloquente sul valore e il significato del soprannome predominante sul nome -
viene riportato da Alessandro Schiavi negli anni della guerra, che rende
perfettamente il senso di portare un soprannome. Il contesto è tragico e
grottesco: E’ zacul: l’anatroccolo, un antifascista ravennate
viene torturato per un’intera notte, con una tortura ispirata al suo
soprannome: come un «zacul» viene fatto camminare a piedi nudi dentro ad
un fosso d’acqua per un’intera notte, poi dopo terribili amputazioni viene portato
alla morte dai fascisti.
L’abbandono del dialetto
nelle città negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, è
anche segnato da altri eventi significativi: all’inizio degli anni Cinquanta a
Ravenna, per esempio, le rappresentazioni teatrali in dialetto diminuiscono in
modo vistoso: nel decennio 1954-64 da 61 a 3, mentre le presenze di turisti
aumentano (Balzani, p. 196)
B. 3. Scolarizzazione
e dialetto: il rapporto risale alla riforma Gentile dall’italiano
al dialetto
Con la Riforma Gentile e
l’introduzione del dialetto nelle scuole nei primi anni del Ventennio, l’insegnamento del dialetto in
classe è legato al recupero della tradizione folclorica da parte delle maestre
e degli alunni, soprattutto della scuola elementare. A tal fine vengono anche
scritti libri di testo, come Romagna solatia di Paolo Toschi, che
ripropone l’incipit della poesia pascoliana.
Se il secondo dopoguerra è caratterizzato dalla negazione del dialetto a scuola
e a casa per alunni nella massima parte dialettofoni, all’inizio del nuovo
millennio, con una popolazione scolastica composta principalmente (e sempre
in numero crescente da figli di immigrati di lingua straniera) da alunni
italofoni - che non solo non parlano italiano, ma nella maggioranza dei casi
non lo sentono neppure parlare - si assiste ad una significativa inversione
di tendenza, che va dalla negazione del dialetto al suo reinserimento dopo 50
anni .
Il ritorno del dialetto nelle
scuole forlivesi è contemplato dal progetto «Conoscere il passato per crescere
nel futuro» ideato dalla signora Graziella Valentini, maestra e esperta di
dialetto e di cultura folclorica nell’ambito di un programma (iniziato
nell’anno scolastico 2004/5) più ampio dedicato a «Dialetto e Cultura
Romagnola», sostenuto da una serie di associazioni (Comitato Culturale
Pieveacquedotto, Compagine San Tomè, Coro Città do Forlì, …) con il contributo
di Comune e di Provincia. Avviata lo scorso anno scolastico, in po’ in sordina
dalla scuola «A. Manzoni» della Circoscrizione n.° 3, nell’anno scolastico
2005/6 l’iniziativa ha ricevuto l’adesione di altre circoscrizioni per un
totale di 23 classi. Gli organizzatori si propongono di estendere l’esperienza
didattica oltre che alla scuola elementare alla scuola media.
Il dialetto è presente nell’ambito
di questo progetto che va alle radici culturali, storiche e folcloriche
contadine della Romagna, non fine a se stesso, ma come codice linguistico delle
culture perdute, quello delle «parole abbandonate» (attrezzi da lavoro, dell’uso
quotidiano…), con la consapevolezza che oramai si tratta di una lingua del
passato.
Il progetto non è solo rivolto alla
popolazione studentesca italiana ma anche a quella dei figli degli immigrati,
per i quali costituisce il passato più prossimo (aratura con l’aratro trainato
dai buoi per gli africani; la tessitura per i cinesi) ciò che per gli alunni
italiani rappresenta il passato remoto.
B.4.
All’inizio degli anni Settanta si
assiste ad una rivisitazione del dialetto e della cultura tradizionale. Per
spiegare tale fenomeno vengono rivisitati alcuni concetti messi a punto da
Roberto Balzani in una sua recente conferenza (R. Balzani, Romagna memoria o
Romagna risorsa?, Fondazione Garzanti, inverno 2006), realtivi a «Romagna
memoria» e «Romagna risorsa», Su di essi è possibile stabilire l’equazione:
La Romagna memoria sta al dialetto, come la memoria risorsa sta all’italiano
(e al plurilinguismo).
La Romagna memoria è
quella che viene delimitata da una serie di segni codificatia
partire dal primo Novecento anche a livello iconografico. Da un lato il
ruralismo (caveja, la piè,) e dall’altro lato la marineria vengono
rappresentati insieme: la terra col carro, il mare con le vele, significando la
tradizione contadina e il recupero del litorale nella memoria della Romagna
dopo la prima guerra mondiale.
La Romagna risorsa è quella soggetta ad un’idea
progettuale del territorio e dello sviluppo tecnico-industriale: lo
sviluppo del litorale, il porto di Ravenna ad esempio. Durante il Fascismo la Romagna
memoria coincide con la Romagna risorsa, la Romagna come sintesi della Storia
d’Italia. La Romagna che è simbolo di rinascita è quella che viene sintetizzata
da Dante e dai segni del medioevo; da Alfredo Oriani e dalla Villa del Cardello
a Casola (immagine resa prepotente all’immaginativa fascista dopo la marcia del
Duce al Cardello), dal monumento di Francesco Baracca a Lugo, dalla stessa casa
del Duce a Predappio.
Nel secondo dopoguerra, si
accentua la distanza tra Romagna memoria e Romagna risorsa: i simboli si
svuotano di significato: decontestualizzati sono parole vuote anche quando
parlano dialetto.
B.5.
In questo contesto di Romagna memoria
e Romagna risorsa è possibile leggere anche l’Amarcord di Fellini del
1973, che sembra riassumere in quella voce verbale (la prima pers. sing.
pres. indicat. del verbo riflessivo arcurders che è la linfa
dell’affabulazione popolare) dialettalità e romagnolità, promettendo più di
quanto in realtà non offra.Si tratta di un’evocazione che non significa
un ritorno al dialetto e alla cultura tradizionale, al suo recupero, che cioè
non ha nulla da spartire con l’attività svolta per tanti anni, prima e dopo la
seconda guerra dalla «Piè» di Spallicci.
Nell’operazione di Fellini e di
Guerra, l’altro sceneggiatore del film, la Romagna, Rimini in particolare, è
solo un ricordo, è «paesaggio della coscienza» di sapore pascoliano (Balzani
2001, p. 201), una provincia dell’Italia del turismo di massa, una provincia
che coincide con una stagione della vita, quell’inguaribile adolescenza che
rischia di possederci per sempre. È la provincia balneare che si afferma come
mito di massa, dopo la provincia del Duce, e che ha più uno scopo ideologico,
ma quello del consumo di beni e di servizi.
Nell’Amarcod di
Fellini come la Romagna perde i suoi connotati topografici e cronologici
locali, schiacciata dalle quinte di Cinecittà, così la riviera da povera,
periferica e malarica, diviene lo scenario di una Romagna virtuale, che si
allontana definitivamente da quel regionalismo culturale alimentato con tanta
passione e tenacia da Spallicci, che si sostituisce a quella più autentica
della tradizione, del dialetto, dei vecchi mestieri e della tramontante
economia rurale, per identificarsi con loghi che sono solo simboli,
metafore (il Passatore, la piadina) svuotati di significato,
decontestualizzati, defunzionalizzati, defolclorizzati. Si assiste alla
mercificazione di stereotipi, il sangiovese, l’albana e la ciambella, la
caveja, il Passatore e il liscio (ibidem, p. 195),
Macroscopica è anche la
defunzionalizzazione de E’ luneri di smembar che diviene
curiosità del passato, disancorato dalla sua funzione prima di strumento a
guida alla vita quotidiana e al lavoro dei campi. Il lunario si lascia alle
spalle le porte delle stalle per fare bella presenza negli ambienti più
disparati con le sue connotazioni «rustiche», per la sua bizzarria e
singolarità dialettale. Sulle vignette del lunario oramai quasi tutti i
romagnoli stentano a sillabare il dialetto. E forse s’è perfino perso il
significato più lontano di Smembar, la compagnia degli spiantati,
nullafacenti, nullatenenti, qui da i bus intal ganasc, i devoti del San
Giovese dal viso scavato dalla miseria e dalla povertà, in cui per certi
versi bene si identificavano i poveri mezzadri e abitanti di villa a partire
dalla seconda metà dell’Ottocento.
In tale contesto la Romagna
di Spallicci, che è la vera Romagna della memoria, rimane una Romagna di pochi:
del resto «il raffinato impianto della Piè è già elitario nel 1922», quando
nasce (Balzani, 2001, p. 200). Soppressa nel 1933, per il rifiuto di
accompagnarla con l’annata del regime, per non venir meno al vero significato
di un’esperienza culturale lontano da ogni credo politico, la Rivista di
Illustrazione Romagnola aveva un programma di recupero del folclore
diametralmente opposto a quello del regime: quello dei piadaioli è razionale e
concreto, mosso da vero interesse, indagini sul campo, iniziative di grande
rilievo (come il museo delle tradizioni contadine a Forlì, fondato da B.
Pergoli nel 1921, uno dei primi in Italia e in Europa) , mentre la Folclorica
fascista e la propaganda di regime cerca solo di elaborare simboli collettivi
che servono al consolidamento del potere totalitario (Mazzocchi, p116).
L’atteggiamento del Fascismo verso lo studio delle tradizioni popolari appare
ambiguo: da un lato lo incoraggia e promuove, anche a livello didattico e
culturale («Lares» è l’Organo ufficiale del Regime sulle tradizioni popolari),
dall’altra parte la svuota di significati.
C.
Nell’ambito del rapporto tra lingua e dialetto in Romagna si inscrive
C.1. La
tradizione letteraria e culturale del Novecento
Da una lato va sottolineata la
tradizione della Scuola Classica Romagnola, che affonda le radici nelclassicismo
tardoottocentesco (in Romagna nascono gli allievi più famosi di Carducci: da
Pascoli, a Panzini a Serra), sulla quale, e in particolare sull’esperienza
poetica pascoliana, s’innesta la poesia dialettale d’autore (che caratterizza
la letteratura italiana del Novecento a partire dall’esperienza poetica in
dialetto di P.P. Pasolini) presente anche in Romagna, con una tradizione che va
dalla prima generazione di Aldo Spallicci, bertinorese, all’ultima di Tonino
Guerra (la sua prima raccolta è del 1942), santarcangiolese, e che si
intensifica proprio all’inizio degli anni Settanta, negli stessi anni in cui si
verifica anche un ritorno appassionato allo studio del «popolare», soprattutto
attraverso l’esempio degli storici francesi che fanno capo alle «Annales», e
che in Italia hanno esponenti illustri e veri maestri in Carlo Ginzburg,
Roberto Leydi, e i forlivesi Piero Camporesi e Carlo Poni.
C.2. I
poeti in dialetto
Dalla lingua di tutti alla lingua di
pochi, da lingua del popolo a lingua d’élite
La Romagna presenta una tradizione
letteraria in dialetto o mista (dialetto/italiano) una scuola prestigiosa da
Pascoli a Raffaello Baldini, passando attraverso Spallicci e altri grandi poeti
in dialetto del Novecento. Si tratta di una poesia in romagnolo che si impone
sul piano nazionale e che viene diffusa dalle voce e dalle performances
di attori e poeti come Ivano Marescotti e Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani
(tutti del Ravennate) e Marino Monti (forlivese), di una inedita consapevolezza
della potenzialità e della ricchezza di una lingua che sta gradatamente
perdendo terreno, come di uno «strumento di resistenza ad una poesia che
l’italiano non sopporterebbe nell’attuale momento storico, una poesia basata su
una concezione totale dell’uomo, su un’immagine dell’uomo legata ai sentimenti
perenni che l’epoca moderna minaccia e mette in crisi» (Pietro Civitareale,
p.10). È un fenomeno poetico che presenta stretti punti di contatto con la
poesia in lingua nazionale, nell’ambito del rinnovamento dei mezzi espressivi e
di una sensibilità aggiornata.
C.3. Rivitalizzazione del dialetto a Forlì
Vere e proprie iniezioni di vitalità
alla lingua dialettale si identificano in numerose iniziative: a partire dalla
scuola dell’obbligo, col progetto, già ricordato, in cui scuola, comune e provincia
si incontrano per diffondere cultura romagnola e dialetto; a livello cittadino
con concorsi di poesia dialettale (L’associazione Antica Pieve di
Pieveacquedotto, presieduta da Marino Monti. L’AUSER, La sucietè di
Piadarul).
Incontri di poesia dialettale:
lettura di testi di poeti autori e di altri poeti
La cultura folclorica e il dialetto
vengono alimentati anche in seno all’attività delle Accademie del
territorio forlivese: I Benigni di Bertinoro (A treb sott al stell), gli
Imperfetti di Meldola, l’Artusiana di Forlimpopoli)
Tra le Associazioni forlivesi sorte
intorno alla conoscenza della cultura folclorica e dialettale si colloca «E’
Racozz»: associazione culturale fondata nel 1972 da quattro avocati
forlivesi e Sanzio Zoli, commercialista. All’inizio si limitava ad alcune
riunioni e discussioni fra amici sull’origine e il significato delle parole
dialettali, poi col tempo si è ampliata sia nel numero dei soci, sia nella
prospettiva culturale, con incontri conviviali a scadenza mensile, accompagnati
da presentazione di libri,, conferenze su musica, pittura, poesia.
Recentissima, sorta il 9 marzo 2006,
con sede a Pieveacquedotto, è l’associazione «E’ sdaz», il
setaccio: lo scopo è quello di promuovere la conoscenza della cultura romagnola
in tutti i suoi aspetti, tradizioni e dialetto. I soci fondatori sono:
Graziella Valentini, Marino Monti, gli Assessori al Comune di Forlì Viviana
Zanetti e Gabriele Zelli. E viene da chiedersi: la nascita di questa nuova
associazione è una risposta al vuoto culturale lasciato dalla gloriosa «Piè»,
al timore che la perdita della direzione e della stampa della «Rivista di
Illustrazione romagnola» possa significare il trionfo della «Romagna risorsa»
sulla «Romagna memoria», di Forlì «risorsa» su Forlì «memoria»? Forlì,
infatti, nel 2004/5 perde un suo tratto di identità, la «Piè»: ora la
rivista si stampa a Imola con un direttore imolese di origine napoletana: è
segno che una stagione illustre che ha alle spalle il lavoro di decenni di Aldo
Spallicci e di molti altri forlivesi e romagnoli si è conclusa ed è iniziata
una nuova stagione per il dialetto e la cultura romagnola?
Riferimenti bibliografici
Roberto
Balzani, La Romagna, Bologna, il Mulino, 2001
Marco
Bazzocchi, Letteratura e dibattito culturale, in Maurizio Ridolfi (a cura di), La
Romagna del Novecento. Introduzione alla storia locale, Cesena, Il Ponte
Vecchio, 1997, pp. 115-132
Giuseppe
Bellosi I dialetti della poesia romagnola, postfazione a Pietro Civitareale, Poeti in
romagnolo del Secondo Novecento, prefazione di Davide Argnani, Postfazione
di Giuseppe Bellosi, Imola, La Mandragora, 2005
Elide Casali, "La Pie" e la cultura
folclorica durante il fascismo, in Aspetti della cultura emiliano-romagnola nel ventennio
fascista, a cura di A.Battistini, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 239-313
Idem, Il "Luneri di Smembar" nel
ventennio fascista ,
ivi, pp. 315-353
Pietro
Civitareale, Poeti in romagnolo del Secondo Novecento, prefazione
di Davide Argnani, Postfazione di Giuseppe Bellosi, Imola, La Mandragora, 2005
Paolo
Temeroli, «Per la biblioteca popolare … in Forlì». Un contributo alla
ricostruzione democratica nel secondo dopoguerra, in Maurizio Ridolfi (a cura di), Alessandro
Schiavi: indagine sociale. Culture politiche e tradizione socialista nel primo
‘900, Cesena, Il Ponte vecchio,
Alessandro
Schiavi, Diari e note sparse (1894-1964), a cura di Carlo De
Maria e Dino Mengozzi, Mandria-Bari-Roma, Piero Licata Editore,2003