Ateneo CLIRO Comune di Forlì  
 
 
Home
Progetto
Relatori
Programma
Galleria degli interventi
Materiale
Percorso formativo
Istituzioni
Legislazione
Università di Bologna
Regione Emilia Romagna
Glossario
Fonti e testimonianze
Pubblicazioni
Tesi
Bibliografia
Webgrafia
Sitografia
 
Materiale informativo
- Volantino del convegno

Lingua cultura e società a Forlì nel secondo novecento

Elide Casali

L’intervento, che rientra in una prospettiva di storia della cultura, è impostato sul rapporto tra lingua e dialetto a Forlì nel secondo Dopoguerra

A. Il contesto sociale e culturale, geografico ed economico

FORLÌ:  il Forlivese e la Romagna

Se si vuole affrontare il tema del rapporto tra lingua e dialetto a Forlì è necessario considerarlo in prospettiva diacronica e in relazione al territorio dell’intera provincia e della Romagna. Una provincia che si estende «Dagli Appennini alle onde», dalla Romagna Toscana alla Riviera, a Rimini (fino a pochi anni fa inserita nella provincia di Forlì, ora provincia a se stante), e che significa una tradizione culturale multiforme: cittadina, rurale e montanara, ciascuna delle quali presenta necessariamente linguaggi tecnici diversi in  dialetti diversi oltre che diversificate parlate dell’italiano regionale. Gli abitanti della Romagna toscana, per esempio, presentano una lingua dialettale romagnola mista ad un toscano più elegante e forbito rispetto al romagnolo di pianura e della bassa

Non esiste, sostiene Giuseppe Bellosi, un dialetto romagnolo né come lingua, né come Koiné letteraria. Per farsi intendere da un paese all’altro i romagnoli parlano una koiné romagnola che non esiste, un romagnolo medio che è però comprensibile.

La lingua del Forlivese è il risultato di esperienze culturali legate anche alla posizione geografica della città degli Ordelaffi che, a seconda dei momenti storici, è stata attirata nell’orbita di grandi centri politici culturali e tipografici (Firenze, Bologna, Venezia) mentre, a partire dal secondo dopoguerra con l’esplosione dell’industria turistica della riviera, conosce una significativa proiezione verso i centri di mare (Rimini, Cesenatico).

L’industria turistica assorbe lavoratori dall’entroterra, dalle zone di pianura, pedemontane e montane: è da un lato il parziale abbandono e la defolclorizzazione del dialetto e, dall’altro lato, l’incontro della lingua italiana con la lingua straniera dei turisti. Non significa scomparsa totale del dialetto, ma sicuramente un suo progressivo impoverimento quando viene a trovarsi disancorato dalla cultura materiale e agricola sulla quale si era modellato per secoli.

B. dal dialetto all’italiano a partire dal II dopoguerra

Il processo che porta ad abbandonare il dialetto verso una lingua italiana regionale e letteraria conosce alcune tappe importanti, individuate nei seguenti fenomeni: la scolarizzazione unitamente alla «probizione» ai bambini nelle famiglie della piccola e media borghesia (oltre che all’interno di famiglie di bassa estrazione sociale, per le quali l’italiano diventa strumento di emancipazione culturale e sociale) di parlare il dialetto già a partire dai primi anni del secondo Dopoguerra nell’Italia della ricostruzione (in Romagna e a Forlì, avviene, come in altre realtà dialettali, quello che racconta Diego Marani nel suo libro Come ho imparato le lingue, Milano, Bompiani, 2005 a proposito della probizione in famiglia e a scuola di parlare il dialetto che Marani apprende segretamente dai nonni e dai compagni di gioco). Si giunge così ad una parlata italiana locale con l’ìtalianizzazione del dialetto che va sempre più speditamente verso l’italiano appreso anche attraverso i mass media, con una virata artistica e «turistica», negli anni Settanta, verso il dialetto simbolicamente rappresentato dall’Amarcord di Federico Fellini e dalla Romagna dell’«ombrellone e della piadina» (Balzani). Infine alle soglie del terzo Millennio si assiste alla sublimazione del dialetto romagnolo a lingua della poesia che va oltre i confini regionali e che irrompe prepotente in campo nazionale dove per tradizione i dialetti universalmente accolti in ambito culturale e letterario sono stati il napoletano e il veneziano.

B.1. Verso l’italiano. Scolarizzazione e invito alla lettura: il ruolo della Biblioteca popolare

La cultura della lettura a Forlì è legata, nel secondo Dopoguerra, all’apertura della Biblioteca popolare fondata da Alessandro Schiavi che favorisce la diffusione e il radicamento dell’italiano letterario. Si tratta del primo nucleo di quella che poi è divenuta un fondo di narrativa tra più i ricchi d’Italia, e per  mezzo della quale il prendere libri a prestito diviene uno stile di vita caro a molti forlivesi.

Alessandro Schiavi ne dà conto nella «Relazione di Alessandro Schiavi alla Sezione socialista di Forlì»,  relativa all’attività culturale, politica e amministrativa riguardante il partito socialista svolta dal 20 dicembre 1944 al 28 agosto 1945, al punto 4: «Biblioteca e Pinacoteca Municipali», dove informava:

«Come presidente della commissione di vigilanza, in rappresentanza del Sindaco, rifatto il regolamento organico, improntandolo ai moderni criteri della tecnica delle biblioteche, e creata la sezione Biblioteca popolare con proprio regolamento, locale bilancio» (SCHIAVI, Diari, p. 305).

Studiata nell’ambito del rinnovamento politico dopo la caduta del regime, sostenuta dall’idea della «città-giardino» (assorbita da Schiavi in Inghilterra, dove era sorta nel 1898 per merito di Ebenez Howard)(Temeroli, p. 206) della «ricostruzione e ripresa della vita cittadina dopo la paralisi e le distruzioni causate dalla guerra» (Temeroli, p. 200), essa fu creata col sostegno di «soci», dopo un appello alla collaborazione volto alla cittadinanza, alle associazioni e agli enti pubblici locali (Temeroli, p. 202) per creare il fondo iniziale e la sovvenzione periodica. Si trattava, dunque, di una associazione, i cui «soci ordinari erano gli utenti abbonati e soci perpetui», cioè tutti coloro che avessero versato una volta la quota di mille lire. Dopo una modifica del regolamento nel 1956, finalmente nel 1963 la Biblioteca Popolare fu assorbita dalla Comunale, divenendone la sezione moderna.

Il senso della Biblioteca popolare, che si differenziava dalla «Saffi» (dedita alla conservazione e consultazione in sede e frequentata da studenti e da studiosi), era quello dell’«educazione degli strati sociali subalterni» e «delle masse lavoratrici» per quanti avessero frequentato solo i primi anni di scolarizzazione come «integrazione e continuazione dei corsi scolastici diurni e serali, tecnici e di avviamento» (ibidem, p.212). Era quello di creare un «piacevole insegnante» che proponesse accanto «ad opere di amena lettura o divulgative», opere politiche, sociali e storiche (ibidem, p. 204). L’apertura al pubblico avvenne ai primi di luglio del 1946. Nel 1951 da 700 volumi iniziali s’era passati a più di 4000, (opere di cultura varia: storia, scienze, politica, narrativa, sia italiana che straniera, e libri per ragazzi). Nei giorni di apertura, sabato e domenica, affluivano una media di 80-90 persone con alcune centinaia di soci: operai, artigiani, impiegati, studenti, ragazzi. Grandi assenti i contadini. Dunque nel secondo dopoguerra, anche per l’attività della Biblioteca popolare, il divario linguistico e culturale tra città e campagna aumenta. Le zone rurali, soprattutto le più marginali, continuano a riconoscersi nella loro cultura di tradizione orale e a parlare dialetto.

È solo con la scolarizzazione e insieme l’industrializzazione, lo spopolamento delle campagne e delle zone montane e pedemontane che il dialetto comincia ad incrinarsi, a piegarsi e a convertirsi  all’italiano.

B. 2. Il passaggio dalla campagna alla città, dal mondo contadino al mondo operaio, segna il tramonto di tradizioni folcloriche e del dialetto, e la diffusione di un parlare che va sempre più verso l’italiano, in seguito a modificazioni del tessuto culturale, la perdita di costumanze legate alla terra, all’agricoltura, ai mestieri scomparsi. Anche le trasformazione del paesaggio cancellano definitivamente sedimentazioni culturali e segni linguistici.La piantata, per esempio, introdotta nel Cinquecento a caratterizzata da vidi maridedi all’oium, viti maritate all’olmo, viti che si maritavano (s’intrecciavano, si legavano, quasi in una esistenza simbiotica) ai gelsi, ora si configura con viti vedove dei loro alberi-mariti, le quali si appoggiano tristemente a sterili e freddi grigi pali di cemento. Quando vengono meno le tecniche tradizionali, si perdono le parole della tecnica, s’eclissa l’dea stessa che la sottende. E mentre si abbandonano le parole, si impoverisce l’immaginario collettivo tradizionale, trasformandosi.

L’impoverimento della cultura tradizionale trascina con sé la trasformazione delle relazioni sociali, delle forme di vita e dei luoghi d’incontro: le veglie e i campi cedono il primato alle piazze, alle biblioteche e alla scuola, a relazioni interpersonali molto più anonime. Sono, ad esempio, scomparsi i soprannomi che sapevano  designare, per identificare i personaggi e per individuarli, tratti fisici e morali ed economici o di ascendenza familiare.

Un episodio drammatico – ma eloquente sul valore e il significato del soprannome predominante sul nome - viene riportato da Alessandro Schiavi negli anni della guerra, che rende perfettamente il senso di portare un soprannome. Il contesto è tragico e grottesco: E’ zacul: l’anatroccolo, un antifascista ravennate viene torturato per un’intera notte, con una tortura ispirata al suo soprannome: come un «zacul» viene fatto camminare a piedi nudi dentro ad un fosso d’acqua per un’intera notte, poi dopo terribili amputazioni viene portato alla morte dai fascisti.

 L’abbandono del dialetto nelle città negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, è anche segnato da altri eventi significativi: all’inizio degli anni Cinquanta a Ravenna, per esempio, le rappresentazioni teatrali in dialetto diminuiscono in modo vistoso: nel decennio 1954-64 da 61 a 3, mentre le presenze di turisti aumentano (Balzani, p. 196)

 B. 3. Scolarizzazione e dialetto: il rapporto risale alla riforma Gentile dall’italiano al dialetto

Con la Riforma Gentile e l’introduzione del dialetto nelle scuole nei primi anni del Ventennio, l’insegnamento del dialetto in classe è legato al recupero della tradizione folclorica da parte delle maestre e degli alunni, soprattutto della scuola elementare. A tal fine vengono anche scritti libri di testo, come Romagna solatia di Paolo Toschi, che ripropone l’incipit della poesia pascoliana.

Se il  secondo dopoguerra è caratterizzato dalla negazione del dialetto a scuola e a casa per alunni nella massima parte dialettofoni, all’inizio del nuovo millennio, con una popolazione scolastica composta principalmente (e sempre in numero crescente da figli di immigrati di lingua straniera) da alunni italofoni - che non solo non parlano italiano, ma nella maggioranza dei casi non lo sentono neppure parlare - si assiste ad una significativa inversione di tendenza, che va dalla negazione del dialetto al suo reinserimento dopo 50 anni .

Il ritorno del dialetto nelle scuole forlivesi è contemplato dal progetto «Conoscere il passato per crescere nel futuro» ideato dalla signora Graziella Valentini, maestra e esperta di dialetto e di cultura folclorica nell’ambito di un programma (iniziato nell’anno scolastico 2004/5) più ampio dedicato a «Dialetto e Cultura Romagnola», sostenuto da una serie di associazioni (Comitato Culturale Pieveacquedotto, Compagine San Tomè, Coro Città do Forlì, …) con il contributo di Comune e di Provincia. Avviata lo scorso anno scolastico, in po’ in sordina dalla scuola «A. Manzoni» della Circoscrizione n.° 3, nell’anno scolastico 2005/6 l’iniziativa ha ricevuto l’adesione di altre circoscrizioni per un totale di 23 classi. Gli organizzatori si propongono di estendere l’esperienza didattica oltre che alla scuola elementare alla scuola media.

Il dialetto è presente nell’ambito di questo progetto che va alle radici culturali, storiche e folcloriche contadine della Romagna, non fine a se stesso, ma come codice linguistico delle culture perdute, quello delle «parole abbandonate» (attrezzi da lavoro, dell’uso quotidiano…), con la consapevolezza che oramai si tratta di una lingua del passato.

Il progetto non è solo  rivolto alla popolazione studentesca italiana ma anche a quella dei figli degli immigrati, per i quali costituisce il passato più prossimo (aratura con l’aratro trainato dai buoi per gli africani; la tessitura per i cinesi) ciò che per gli alunni italiani rappresenta il passato remoto.

B.4.

All’inizio degli anni Settanta si assiste ad una rivisitazione del dialetto e della cultura tradizionale. Per spiegare tale fenomeno vengono rivisitati alcuni concetti messi a punto da Roberto Balzani in una sua recente conferenza (R. Balzani, Romagna memoria o Romagna risorsa?, Fondazione Garzanti, inverno 2006), realtivi a «Romagna memoria» e «Romagna risorsa», Su di essi è possibile stabilire l’equazione: La Romagna memoria sta al dialetto, come la memoria risorsa sta all’italiano (e al plurilinguismo).

La Romagna memoria è quella che viene delimitata da una serie di segni codificati a partire dal primo Novecento anche a livello iconografico. Da un lato il ruralismo (caveja, la piè,) e dall’altro lato la marineria vengono rappresentati insieme: la terra col carro, il mare con le vele, significando la tradizione contadina e il recupero del litorale nella memoria della Romagna dopo la prima guerra mondiale.

La Romagna risorsa è quella soggetta ad un’idea progettuale del territorio e dello sviluppo tecnico-industriale: lo sviluppo del litorale, il porto di Ravenna ad esempio. Durante il Fascismo la Romagna memoria coincide con la Romagna risorsa, la Romagna come sintesi della Storia d’Italia. La Romagna che è simbolo di rinascita è quella che viene sintetizzata da Dante e dai segni del medioevo; da Alfredo Oriani e dalla Villa del Cardello a Casola (immagine resa prepotente all’immaginativa fascista dopo la marcia del Duce al Cardello), dal monumento di Francesco Baracca a Lugo, dalla stessa casa del Duce a Predappio.

Nel secondo dopoguerra, si accentua la distanza tra Romagna memoria e Romagna risorsa: i simboli si svuotano di significato: decontestualizzati sono parole vuote anche quando parlano dialetto.

B.5.

In questo contesto di Romagna memoria e Romagna risorsa è possibile leggere anche l’Amarcord di Fellini del 1973, che sembra riassumere in quella voce verbale (la prima pers. sing. pres. indicat. del verbo riflessivo arcurders che è la linfa dell’affabulazione popolare) dialettalità e romagnolità, promettendo più di quanto in realtà non offra. Si tratta di un’evocazione che non significa un ritorno al dialetto e alla cultura tradizionale, al suo recupero, che cioè non ha nulla da spartire con l’attività svolta per tanti anni, prima e dopo la seconda guerra dalla «Piè» di Spallicci.

Nell’operazione di Fellini e di Guerra, l’altro sceneggiatore del film, la Romagna, Rimini in particolare, è solo un ricordo, è «paesaggio della coscienza» di sapore pascoliano (Balzani 2001, p. 201), una provincia dell’Italia  del turismo di massa, una provincia che coincide con una stagione della vita, quell’inguaribile adolescenza che rischia di possederci per sempre. È la provincia balneare che si afferma come mito di massa, dopo la provincia del Duce, e che ha più uno scopo ideologico, ma quello del consumo di beni e di servizi.

Nell’Amarcod di Fellini come la Romagna perde i suoi connotati topografici e cronologici locali, schiacciata dalle quinte di Cinecittà, così la riviera da povera, periferica e malarica, diviene lo scenario di una Romagna virtuale, che si allontana definitivamente da quel regionalismo culturale alimentato con tanta passione e tenacia da Spallicci, che si sostituisce a quella più autentica della tradizione, del dialetto, dei vecchi mestieri e della tramontante economia rurale, per identificarsi con loghi che sono solo simboli, metafore (il Passatore, la piadina) svuotati di significato, decontestualizzati, defunzionalizzati, defolclorizzati. Si assiste alla mercificazione di stereotipi, il sangiovese, l’albana e la ciambella, la caveja, il Passatore e il liscio (ibidem, p. 195),

Macroscopica è anche la defunzionalizzazione de E’ luneri di smembar che diviene curiosità del passato, disancorato dalla sua funzione prima di strumento a guida alla vita quotidiana e al lavoro dei campi. Il lunario si lascia alle spalle le porte delle stalle per fare bella presenza negli ambienti più disparati con le sue connotazioni «rustiche», per la sua bizzarria e singolarità dialettale. Sulle vignette del lunario oramai quasi tutti i romagnoli stentano a sillabare il dialetto. E forse s’è perfino perso il significato più lontano di Smembar, la compagnia degli spiantati, nullafacenti, nullatenenti, qui da i bus intal ganasc, i devoti del San Giovese dal viso scavato dalla miseria e dalla povertà, in cui per certi versi bene si identificavano i poveri mezzadri e abitanti di villa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.

In tale contesto la Romagna di Spallicci, che è la vera Romagna della memoria, rimane una Romagna di pochi: del resto «il raffinato impianto della Piè è già elitario nel 1922», quando nasce (Balzani, 2001, p. 200). Soppressa nel 1933, per il rifiuto di accompagnarla con l’annata del regime, per non venir meno al vero significato di un’esperienza culturale lontano da ogni credo politico, la Rivista di Illustrazione Romagnola aveva un programma di recupero del folclore diametralmente opposto a quello del regime: quello dei piadaioli è razionale e concreto, mosso da vero interesse, indagini sul campo, iniziative di grande rilievo (come il museo delle tradizioni contadine a Forlì, fondato da B. Pergoli nel 1921, uno dei primi in Italia e in Europa) , mentre  la Folclorica fascista e la propaganda di regime cerca solo di elaborare simboli collettivi che servono al consolidamento del potere totalitario (Mazzocchi, p116). L’atteggiamento del Fascismo verso lo studio delle tradizioni popolari appare ambiguo: da un lato lo incoraggia e promuove, anche a livello didattico e culturale («Lares» è l’Organo ufficiale del Regime sulle tradizioni popolari), dall’altra parte la svuota di significati.

C. Nell’ambito del rapporto tra lingua e dialetto in Romagna si inscrive

C.1. La tradizione letteraria e culturale del Novecento

Da una lato va sottolineata la tradizione della Scuola Classica Romagnola, che affonda le radici nel classicismo tardoottocentesco (in Romagna nascono gli allievi più famosi di Carducci: da Pascoli, a Panzini a Serra), sulla quale, e in particolare sull’esperienza poetica pascoliana, s’innesta la poesia dialettale d’autore (che caratterizza la letteratura italiana del Novecento a partire dall’esperienza poetica in dialetto di P.P. Pasolini) presente anche in Romagna, con una tradizione che va dalla prima generazione di Aldo Spallicci, bertinorese, all’ultima di Tonino Guerra (la sua prima raccolta è del 1942), santarcangiolese, e che si intensifica proprio all’inizio degli anni Settanta, negli stessi anni in cui si verifica anche un ritorno appassionato allo studio del «popolare», soprattutto attraverso l’esempio degli storici francesi che fanno capo alle «Annales», e che in Italia hanno esponenti illustri e veri maestri in Carlo Ginzburg, Roberto Leydi, e i forlivesi Piero Camporesi e Carlo Poni.

 C.2.  I poeti in dialetto

Dalla lingua di tutti alla lingua di pochi, da lingua del popolo a lingua d’élite

La Romagna presenta una tradizione letteraria in dialetto o mista (dialetto/italiano) una scuola prestigiosa da Pascoli a Raffaello Baldini, passando attraverso Spallicci e altri grandi poeti in dialetto del Novecento. Si tratta di una poesia in romagnolo che si impone sul piano nazionale e che viene diffusa dalle voce e dalle performances di attori e poeti come Ivano Marescotti e Giuseppe Bellosi, Giovanni Nadiani (tutti del Ravennate) e Marino Monti (forlivese), di una inedita consapevolezza della potenzialità e della ricchezza di una lingua che sta gradatamente perdendo terreno, come di uno «strumento di resistenza ad una poesia che l’italiano non sopporterebbe nell’attuale momento storico, una poesia basata su una concezione totale dell’uomo, su un’immagine dell’uomo legata ai sentimenti perenni che l’epoca moderna minaccia e mette in crisi» (Pietro Civitareale, p.10). È un fenomeno poetico che presenta stretti punti di contatto con la poesia in lingua nazionale, nell’ambito del rinnovamento dei mezzi espressivi e di una sensibilità aggiornata.

 C.3. Rivitalizzazione del dialetto a Forlì

Vere e proprie iniezioni di vitalità alla lingua dialettale si identificano in numerose iniziative: a partire dalla scuola dell’obbligo, col progetto, già ricordato, in cui scuola, comune e provincia si incontrano per diffondere cultura romagnola e dialetto; a livello cittadino con concorsi di poesia dialettale (L’associazione Antica Pieve di Pieveacquedotto, presieduta da Marino Monti. L’AUSER,  La sucietè di Piadarul).

  • Incontri di poesia dialettale: lettura di testi di poeti autori e di altri poeti
  • La cultura folclorica e il dialetto vengono alimentati anche in seno all’attività delle Accademie del territorio forlivese: I Benigni di Bertinoro (A treb sott al stell), gli Imperfetti di Meldola, l’Artusiana di Forlimpopoli)
  • Tra le Associazioni forlivesi sorte intorno alla conoscenza della cultura folclorica e dialettale si colloca «E’ Racozz»: associazione culturale fondata nel 1972 da quattro avocati forlivesi e Sanzio Zoli, commercialista. All’inizio si limitava ad alcune riunioni e discussioni fra amici sull’origine e il significato delle parole dialettali, poi col tempo si è ampliata sia nel numero dei soci, sia nella prospettiva culturale, con incontri conviviali a scadenza mensile, accompagnati da presentazione di libri,, conferenze  su musica, pittura, poesia.
  • Recentissima, sorta il 9 marzo 2006, con sede a Pieveacquedotto, è l’associazione «E’ sdaz», il setaccio: lo scopo è quello di promuovere la conoscenza della cultura romagnola in tutti i suoi aspetti, tradizioni e dialetto. I soci fondatori sono: Graziella Valentini, Marino Monti, gli Assessori al Comune di Forlì Viviana Zanetti e Gabriele Zelli. E viene da chiedersi: la nascita di questa nuova associazione è una risposta al vuoto culturale lasciato dalla gloriosa «Piè», al timore che la perdita della direzione e della stampa della «Rivista di Illustrazione romagnola» possa significare il trionfo della «Romagna risorsa» sulla «Romagna memoria», di Forlì «risorsa» su Forlì «memoria»? Forlì, infatti, nel 2004/5 perde un suo tratto di identità, la «Piè»: ora la rivista si stampa a Imola con un direttore imolese di origine napoletana: è segno che una stagione illustre che ha alle spalle il lavoro di decenni di Aldo Spallicci e di molti altri forlivesi e romagnoli si è conclusa ed è iniziata una nuova stagione per il dialetto e la cultura romagnola?

Riferimenti bibliografici

  • Roberto  Balzani, La Romagna, Bologna, il Mulino, 2001
  • Marco Bazzocchi, Letteratura e dibattito culturale, in Maurizio Ridolfi (a cura di), La Romagna del Novecento. Introduzione alla storia locale, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1997, pp. 115-132
  • Giuseppe Bellosi I dialetti della poesia romagnola, postfazione a Pietro Civitareale, Poeti in romagnolo del Secondo Novecento, prefazione di Davide Argnani, Postfazione di Giuseppe Bellosi, Imola, La Mandragora, 2005
  • Elide Casali, "La Pie" e la cultura folclorica durante il fascismo, in Aspetti della cultura emiliano-romagnola nel ventennio fascista, a cura di A.Battistini, Milano, Franco Angeli, 1992, pp. 239-313
  • Idem,  Il "Luneri di Smembar" nel ventennio fascista , ivi, pp. 315-353
  • Pietro Civitareale, Poeti in romagnolo del Secondo Novecento, prefazione di Davide Argnani, Postfazione di Giuseppe Bellosi, Imola, La Mandragora, 2005
  • Paolo Temeroli, «Per la biblioteca popolare … in Forlì». Un contributo alla ricostruzione democratica nel secondo dopoguerra, in Maurizio Ridolfi (a cura di), Alessandro Schiavi: indagine sociale. Culture politiche e tradizione socialista nel primo ‘900, Cesena, Il Ponte vecchio,
  • Alessandro Schiavi, Diari e note sparse (1894-1964), a cura di Carlo De Maria e Dino Mengozzi, Mandria-Bari-Roma, Piero Licata Editore,2003
 

 Sito a cura di Vanio Preti e Anabel Valdivieso
 © Copyright 2005-06 - Informativa sulla Privacy
 ALMA MATER STUDIORUM - Università di Bologna
 CLIRO - Centro Linguistico dei Poli Scientifico-Didattici della Romagna